Agosto 2010, 20 anni dopo, come i tre moschettieri di Dumas, torno a visitare l'Albania per 10 giorni come un amico lontano ma non dimentico, per vedere, documentare e raccontare con le immagini, qual'è la reale situazione, come mia abitudine, al di là di false informazioni, preconcetti e stereotipi diffusi dai nostri media.
Il mio primo viaggio si svolse nel 1992 al seguito dell'allora ministro Boniver in visita ai nostri militari dell'”operazione Pellicano” che portava aiuti al paese appena uscito dall'era dittatoriale di Enver Hoxha.
20 giorni tra Durazzo e quella Tirana, capitale che fino a qualche mese prima faceva rima con tirannia. Un viaggio a ritroso nel tempo in un paese a un'ora di aereo dall'Italia ma lontano di almeno 50 anni, allora come oggi, dalla civiltà occidentale.
I ricordi rimasti negli occhi e nel cuore, di un paese incredibile, punteggiato senza soluzione di continuità, come un corpo col morbillo, da bunker in ogni dove, circolari, piccoli per singoli e grandi per gruppi familiari, come collinette lungo le strade tra i palazzi; nei campi i trattori facevano lo slalom per arare la terra.
Città con palazzi, simili ai nostri popolari ma costruiti come i nostri abusivi; non rifiniti, pieni di parabole satellitari; un gran caos estetico. Bambini che giocavano nelle strade polverose, e uno di loro che portava affettuosamente a spasso una pecora al guinzaglio.
Pochi negozi con una bilancia sul bancone e alle spalle scaffali vuoti.
Niente bar; il che mi costringeva a far colazione sulla piazza della stazione ferroviaria di Durazzo dove una donna, da una finestrina, vendeva una sorta di schiacciatina fritta e zuccherata, incartata nelle pagine strappate ad una Divina Commedia.
La ricerca di un buon caffè alla turca, trovato al bar di un’industria pesante, offerto dagli operai disoccupati, assieme all’immancabile bicchierino di raki.
I pasti a base di hamburhjer bruciati e patatine fritte, in un improbabile albergo creato in una villa della nomenclatura dell’ex regime.
Il coprifuoco di un paese senza regole.
Non persone, ma massa incivile violenta delinquente, che in tanti vorrebbero rimandare indietro, dove, nessuno lo racconta mai.
L'occasione del viaggio, questa volta mi è data dalla visita di cortesia ai mie consuoceri; infatti la mia figlia più grande Giovanna ha sposato Skelzen, un ragazzo albanese originario di Fjer, rendendomi nonno di Sara.
Eppure parliamo di un popolo a noi comune, non solo per storia, ma per quel Mediterraneo, da sempre, unificante e respingente allo stesso tempo.
Scoprirò già dal viaggio di andata, della riconoscenza dei tanti albanesi naturalizzati italiani e della grande simpatia, nei nostri confronti.E più prossima che ci fa ricordare, da parte di qualche anziano, perfino con una qualche simpatia, per la nostra invasione ai tempi del fascismo; per finire con il presente, con la nostra televisione che ha creato negli albanesi, soprattutto delle giovani generazioni, un atteggiamento di fratelli minori, affezionati e ammirati.
Così come ogni viaggio intrapreso con la massima apertura mentale e curiosità, mi incuriosisce di confrontare ciò che avevo conosciuto de visu, pregi difetti e arretratezza, con le modernizzazioni intervenute nel paese nel decennio passato, con il valore aggiunto dalla fortuna di entrare da ospite, nel vivo di una famiglia albanese.
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32 km lungo una strada che scorre tra paesaggi agricoli punteggiati di ulivi e costruzioni non finite, simili all'abusivismo meridionale nostrano, mi fa sembrare di non essermi allontanato dalla costa pugliese.
Giungo così a Fjer, nel traffico caotico della seconda città d'Albania, capoluogo del distretto omonimo. Si trova a 100 km dalla capitale Tirana, ed ha una popolazione di 82.000 persone.
Fjer si trova nella pianura di Myzeqe, una grande area agricola, distante circa 156 km dal mare Adriatico, e circa 100 km a sud di Tirana.
La posizione geografica favorevole dal punto di vista della rete stradale, le permette di essere la città più importante per il collegamento tra Nord, Sud, Ovest ed Est del paese.
Altra tappa interessante del viaggio è stata ad Apollonia in Illiria, conosciuta come Apollonia (Απολλωνία προς Επιδάμνω in greco antico) un sito archeologico posto su una collina dominante una pianura di terra fertile, a perdita d’occhio fino al mare all’orizzonte; sulla riva destra del fiume Aous, nei pressi del villaggio di Pojan.
Ma Apollonia non è solo archeologia. Altrettanto mistico e suggestivo è il vicino Monastero con la Chiesa di Shën Mëri (Santa Maria). In ottime condizioni perché restaurato, doveva contenere un museo ma a tutt’oggi solo statue in marmo di buona fattura abbandonate sotto le pensiline. Si varca il grande portone di legno e ci si trova immersi in una visione da sogno; silenzio e atmosfera mistica riempiono il cuore. Al centro la chiesa intitolata alla Madonna a croce greca col campanile svettante e, dintorno il convento che la contiene in un caldo abbraccio, tutto pietra e legno e tetti in coppi di cotto.
E arriva il giorno di partire per Kut il paese originario di papà Agron, mio suocero, dove vivono gli zii Gezim, ex fabbro che mi farà da cicerone per farmi conoscere il paese, e il fratello Resmi che lì fa ancora il contadino e il pastore.
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